Škanéte

Škanéte s.f. = Pagnotta

Impastare il pane si dice tembré.
Spezzarne delle parti per dividere la massa cruda dicesi škané ‘u péne (dal latino explanare ), ossia  spianare la pasta lievitata per fare le forme di pane.
Quindi il termine škanéte  significa letteralmente spezzata, tagliata.

La škanatèlle una una pagnotta di pane più piccola, del peso fino a un chilo. Un po’ per volta si è passati a dire pagnuttèlle.

Quelle “normali” arrivavano a pesare anche fino quattro kg.  In casa si impastava una massa enorme (anche di dieci kg) di farina, perché il pane era la base principale dell’alimentazione delle famiglie numerose.

Dalla pasta si ricavavano le varie pagnotte, 3 o 4. tagliandole, senza usare coltelli, ma mozzandole con le mani. Si riteneva che il freddo della lama potesse bloccare la lievitazione.

Non esistevano forni domestici, e per la cottura – anche di scavetatjille, rjanéte, puperéte, ecc. –  si ricorreva al forno pubblico alimentato a legna (Sfaìlle, Zappetèlle, Grasso, Ze Züje, Gambardella ed altri…)

Mi ricordo che, prima di introdurre il pane,  quando il forno era ancora in fase di riscaldamento, vi si cuocevano il “Tortanello” (una sorta di ciambellone di pasta di pane) e la “Pizza alla vampa” (focaccia semplice con pomodori olio e origano) che richiedevano pochissimo tempo di cottura.

Il rito della panificazione domestica ci permetteva  di gustare queste squisitezze molto prima dell’arrivo del pane .  Era un graditissimo… effetto collaterale.

Il termine “scanata” è usato anche in Sicilia, in Campania, in Basilicata e in Calabria.

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1 Comment

  1. škanéte etimologicamente viene da “spianata”. Da bambino ho lavorato per qualche tempo al forno di Lilino Virgilio. La timbratura del pane non era propriamente l’atto di impastare il pane, ma una fase dell’impastatura. Dopo aver mescolato acqua, sale, farina e lievito (ai miei tempi già si faceva con l’impastatrice elettrica) la massa veniva timbrata, cioè manipolata (pare che il calore delle mani attivasse i lieviti), voltata e rivoltata e compattata con i pugni (forse il termine deriva proprio dal fatto che con le nocche delle dita si lasciavano le forme sulla pasta, come fossero dei timbri ?) e si dava una forma alla pagnotta, che per l’ultima fase della lievitazione veniva messa in delle ceste di vimini avvolte in panni di cotone. Per provare il forno e la pasta si cuoceva un campione d’impasto, la cosiddetta “paposcia”. Questa operazione avveniva normalmente alle tre-quattro del mattino, quando la fame cominciava a farsi sentire. Forse per questo, a noi che avevamo fatto tutta la notte a lavorare, quella paposcia sembrava buonissima…


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